Restauro Suzuki LJ80, a regola d’arte

C’è molto da imparare da uno come Tiziano Pizzagalli, soddisfatto possessore di una LJ80 classe 1982, che sta restaurando in modo maniacale. Un progetto che renderà la vettura quasi più originale che da nuova.

Pro

  • • Relativa facilità di restauro
  • • Accessibilità alle parti meccaniche
  • • Leggerezza delle singole parti da smontare
  • • Impianto elettrico basico
  • • Disponibilità di ricambi meccanici originali presso Suzuki

Contro

  • • Reperibilità di esemplari sani
  • • Lavorazione dei lamierati difficoltosa poiché molto sottili
  • • Reperimento di particolari di carrozzeria e dotazione attrezzi
  • • Telone originale impossibile da trovare
  • • Omologazione autocarro nella maggior parte dei casi

di Giorgio Spolverini

Ah, i magnifici anni 70 e 80… Rincorrendo i piacevoli ricordi vintage, quei tempi erano il massimo per quanto riguarda i fuoristrada. Quelli veri. Con le 4×4 di quegli anni se ne facevano di tutti i colori: si lavorava, si gareggiava, si riusciva ad arrivare in rifugio anche durante la più forte tormenta e persino senza chiodi o catene…

C’è poco da stupirsi, quindi, se non si trovano (quasi più) esemplari in buono stato: la maggioranza di quelli in circolazione ha bisogno di un approfondito restauro (o riverniciata, a seconda del budget). La meccanica era essenziale ma sovradimensionata (nella maggior parte dei casi) e imbullonate ai tamburi c’erano le onnipresenti ma soprattutto efficaci ruote da 16 pollici con gomme di spalla alta e impronta stretta, come per esempio le 6.00-16.

Gomme in grado di “mordere” alla grande anche neve o fango pesante. All’interno di quel gran fermento di produzione di fuoristrada c’erano alcuni modelli che, per certi versi, avevano già il destino segnato: si intuiva che sarebbero diventati, prima o poi, veri e propri cult ricercati dagli appassionati di domani.

C’era chi adorava l’intramontabile stile della Land Rover 88, chi stravedeva per la tecnologica e massiccia Mercedes G con tutti i suoi “bravi” bloccaggi, chi faceva affidamento sulla leggendaria robustezza della Toyota Land Cruiser serie J4 e chi non poteva proprio fare a meno della compattezza, della maneggevolezza e delle doti fuoristradistiche della mitica “Suzukina”, il cui successo era solo in minima parte scalfito dall’equivalente, ma più costosa, rivale Daihatsu Taft serie F.

Rispetto a quest’ultima, la piccola Suzuki serie LJ (Light Jeep) era per molti decisamente più aggraziata, tant’è che seppe catturare il favore di tanti acquirenti di alta montagna, proprio mentre un altro grande mito stava cessando di essere prodotto a Graz, il più compatto e “meno automobilistico” Steyr Puch Haflinger.

Pochi, pochissimi erano allora i mezzi che potevano percorrere le più anguste e sconnesse carrarecce appenniniche e alpine con ripide curve a gomito e che, al tempo stesso, potevano contare su una buona rete di assistenza su territorio. Non c’era alternativa. Soprattutto per chi doveva recarsi ogni sacrosanta e fredda mattina in baita, la Suzuki LJ si rivelava l’unica degna sostituta dell’Haflinger.

TANTI AUGURI, GIOVANNI!

Non è un caso che il “milanese DOC” Tiziano Pizzagalli, convinto e soddisfatto proprietario attuale della Suzuki LJ80 protagonista del servizio (numero di telaio LJ8000512722, immatricolata in Italia nel gennaio 1982) e in fase di fedele restauro, sia anche possessore e cultore, oltre che grande esperto, di 4×4 da veri intenditori come Steyr Puch Haflinger, Jeep Willys MB e Toyota Land Cruiser.

Confrontarsi con persone come Tiziano fa sempre bene a chi è appassionato di auto d’epoca originali fino all’ultima rondella. Già perché sono molto pochi, ci perdonino quelli che credono di sapere, coloro che ne sanno per davvero. L’avventura con la LJ80 inizia un paio di anni fa, quando Tiziano la vede per la prima volta in un’officina in provincia di Como.

Apparentemente l’auto si presenta bene, ma con i lavori non del tutto terminati, nella sua livrea migliore, il colore Desert Beige (codice Suzuki originale 11J). Via alla trattativa e all’acquisto per preparare un’importante sorpresa: questa Suzuki è destinata ad essere il regalo di compleanno per il figlio Giovanni, che il prossimo 28 aprile compirà 20 anni tondi. Per questo, ancor più del resto della collezione di Tiziano, la LJ80 dovrà tornare “nuova” come uscita di fabbrica.

RICERCA E RESTAURO

Che si chiami Suzuki, Toyota o Jeep, tiene a precisare a ragione il purista Tiziano, prima di iniziare un restauro degno di nota occorre documentarsi e non avere fretta. Naturalmente il primo passo ora si fa su Internet (anche se le informazioni reperite vanno comunque filtrate e vagliate), mentre fino a tutti gli anni ’90 il miglior modo di ricerca era frequentare i vari mercatini tematici. Sul Web si possono trovare, attraverso forum e appassionati del modello, depliant dell’epoca, libretti di uso e manutenzione, parts list e tutto ciò che serve per comprendere come fosse l’auto nelle condizioni originali.

Questo è ancora più importante per i fuoristrada Suzuki, che nella maggior parte dei casi sono stati riparati alla meglio per funzionare o, nella peggiore delle ipotesi, preparati e modificati con interventi che poco hanno a che spartire con la sicurezza di marcia e con il risultato estetico finale del veicolo. Tanti, tantissimi sono gli esemplari “raffazzonati”, compreso quello prescelto da Tiziano.

In questo caso, però, si tratta di un buon acquisto poiché la meccanica si presentava bene, mentre era la carrozzeria a mostrare evidenti approssimazioni di restauro, con ampie zone di vernice raggrinzite che si distaccavano dal fondo, derivanti dalla scarsa professionalità del carrozziere che ha svolto i lavori in più riprese.

L’auto, anche se apparentemente bella, in relazione anche al prezzo era una discreta base di restauro, che sicuramente però nascondeva altre sorprese. Bisognava salvarla. Una volta portata nel “capannoncino” dalle parti di Lecco, il lavoro di ricerca di documentazione è andato di pari passo con quello dello smontaggio delle parti.

Le prime sorprese non hanno tardato a venir fuori: tramite la sverniciatura pirolitica ad aria calda (che sulle carrozzerie in acciaio garantisce una pulizia al 100%) sono emerse parti rabberciate alla meglio che di lì a poco, se non opportunamente trattate, avrebbero manifestato rifioriture di ruggine.

Successivamente i lamierati sono stati decappati e quindi protetti con un opportuno processo di cataforesi. Con l’aiuto dei manuali tecnici Tiziano è riuscito a ritrovare le forme originali, ha studiato la bulloneria, cercando l’elemento corretto e non uno qualsiasi, e si è procurato i precisi passacavi di cui necessitava, tanto per citare alcune voci.

Alle operazioni di rigorosa documentazione storica, smontaggio e pulitura delle parti se ne aggiunge un’altra: il reperimento dei ricambi originali. Oggi, tiene a precisare Tiziano, nel mondo dei ricambi c’è più offerta che domanda. Sono tante, infatti, le aziende che producono pezzi aftermarket equivalenti agli originali. Un conto però è trovare il ricambio originale Suzuki, un altro è utilizzare qualcosa riprodotto oggi.

Procedendo in quest’ultimo modo si va inevitabilmente a intaccare l’originalità dell’auto. A questo punto le fonti dove approvvigionarsi si riducono sostanzialmente a un paio: eBay, facendosi il “segno della croce” per trovare qualche fondo di magazzino, o direttamente la casa madre.

Per fortuna Suzuki, come altri costruttori giapponesi, è ancora sensibile al discorso ricambi e dispone tuttora di un nutrito numero di codici per le vetture storiche. Il prezzo medio di ogni pezzo è naturalmente quasi il doppio di uno aftermarket, ma vuoi mettere la soddisfazione di riportare all’originalità un gran bell’oggetto come la LJ 80?

OK, le parti meccaniche non visibili potrebbero pure essere sostituite con ricambi equivalenti, ma in quest’ottica di restauro sarebbe bene operare sempre al massimo livello, utilizzando cioè parti originali. Che magari, se nascoste, si possono documentare tramite foto e fatture di acquisto. Tutto questo fa incrementare inevitabilmente il valore del veicolo, non solo dal punto di vista economico. Persino la batteria di avviamento è stata oggetto di perita ricerca. In base ai manuali di quegli anni l’accumulatore originale doveva essere Yuasa, e Yuasa è ancora oggi.

Un tale dispendio di risorse ed energie, probabilmente, un commerciante o un privato come tanti farebbero fatica a concepirlo, ma per un vero appassionato e cultore di mezzi d’epoca è dovere. E poco importa se l’oggetto del restauro è una Ferrari o una Jimny: il giusto modo di procedere, in ogni caso, è quello perseguito da Tiziano. La stima della spesa totale per il restauro di questa LJ80 con targa originale oscilla tra i 14.000 e i 18.000 euro (manodopera inclusa).

ALLA GUIDA

Grazie alle dimensioni da microcar e alla leggerezza, guidare la LJ80 è un gioco da ragazzi. Lo sterzo, a patto di montare gomme 6.00-16, si gira con una certa disinvoltura. Il cambio è rapido e preciso, e se tutto è in ordine le 4 marce entrano molto agevolmente. Lo sforzo richiesto dal pedale della frizione è minimo. Se su strada, come quasi ogni auto di quegli anni, bisogna portare un po’ di pazienza per la velocità limitata (la velocità di crociera è 80-85 km/h), è in fuoristrada che questa “Suzukina” regala massima soddisfazione sia in termini di prestazioni sia in maneggevolezza di manovra, grazie anche alle sue forme squadrate che fanno percepire subito gli ingombri.

Se il carburatore è ben regolato, il minimo è perfetto in qualsiasi pendenza. Le marce ridotte sono molto corte e servono per affrontare i terreni più impervi, laddove la coppia motrice (dal picco un po’ in alto) mostri la corda.

I consumi in fuoristrada sono nell’ordine dei 7 km/litro, mentre su strada statale, a 80 all’ora, si attestano su 10-11 km/litro. L’autostrada? Meglio evitarla, se possibile.

ORIGINI DI UN PICCOLO, GRANDE MITO

La storia dei 4×4 di Suzuki ha inizio nel 1968 quando la casa di Hamamatsu acquista la Hope Motor Company, piccola azienda giapponese che aveva progettato una mini 4×4 a 2 posti denominata HopeStar ON360 e aveva iniziato a costruirla nell’aprile 1968. La vettura utilizza un motore Mitsubishi di 359 cc e altre componenti Mitsubishi (come l’assale posteriore e le ruote). Ne vengono prodotti solo una quindicina di esemplari.

Quindi la Suzuki subentra nel progetto e lo utilizza come base per sviluppare la sua prima 4×4, la LJ10 (LJ sta per Light Jeep), conosciuta anche come Jimny 360 e, all’estero, Brute IV. La LJ10 viene presentata nell’aprile 1970.

Per poter rientrare nella categoria delle Kei car, cioè auto ultra compatte che in Giappone godono di sgravi fiscali e altri vantaggi, il nuovo motore rimane al di sotto dei 360 cc e, per non superare i 3 metri di lunghezza totale, la ruota di scorta viene posizionata nell’abitacolo, rendendo la vettura una 3 posti.

Sotto il cofano c’è un bicilindrico 2 tempi raffreddato ad aria di 359 cc, progettato da Suzuki, che sviluppa 25 CV a 5.500 giri (27 CV dal 1971) e 3,4 kgm a 5.000 giri.

Molto compatta (appunto 3 metri di lunghezza per 1,29 di larghezza e appena 590 kg di peso), la LJ10 è la prima Kei car a quattro ruote motrici prodotta di serie ed ha un’impostazione tecnica classica: telaio a longheroni, ponti rigidi e balestre, motore anteriore longitudinale, cambio a 4 velocità con riduttore. Ha un solo tipo di carrozzeria, telonata. La LJ10 viene commercializzata principalmente in Giappone, ma dal 1971 pochi esemplari vengono anche esportati negli USA.

Reperirne una è un’impresa e, se bella, le quotazioni superano i 10.000 euro, e abbondantemente se conservata, anche se “opaca” (ma, naturalmente, non “marcia”…).

Nel maggio 1972 viene introdotta la LJ20. Si differenzia dalla LJ10 principalmente per il motore, sempre il 359 cc che però ora ha il raffreddamento a liquido (imposto dalle nuove normative sulle emissioni inquinanti) e sviluppa 29 CV; ma anche per le aperture della griglia frontale, che da orizzontali diventano verticali, e per la disponibilità di una versione con carrozzeria chiusa metallica (LJ20V) con cerchi da 15” anziché da 16”.

Nel1973 vengono introdotti piccoli aggiornamenti, tra cui modifiche estetiche: le luci vengono separate e così ai lati dei fari principali compaiono due coppie di piccole luci tonde. Sempre molto difficoltosa da reperire, la LJ20 ha quotazioni simili a quelle della LJ10.

Nel settembre 1975 alla LJ20 viene affiancata la LJ50, concepita espressamente per essere esportata all’estero. Per questo ha un nuovo motore più elastico, un 3 cilindri 2 tempi di 539 cc raffreddato a liquido che sviluppa 26 CV (33 HP in Australia) a 5.500 giri e 5,2 kgm a 3.500 giri, differenziali più grossi e ruota di scorta esterna che permette di aumentare il numero di posti da 3 a 4.

È mirata soprattutto ai mercati di Australia e Nuova Zelanda, dove si rivela un successo (e dove perciò se ne può reperire un buon numero di esemplari), ma viene esportata anche in altri Paesi.

Nel 1976 il governo giapponese rivede la normativa delle Kei car, permettendo così alla LJ50 di essere venduta, a partire dal mese di giugno, anche nel mercato domestico, dove assume la denominazione di SJ10 o Jimny 55(0). Da maggio, inoltre, viene prodotta una piccola quantità di LJ51P, versione pick up con passo allungato, destinata solo ad alcuni mercati esteri.

Nel 1977 nasce la LJ80, conosciuta in Giappone come SJ20 o Jimny 8, e su altri mercati anche come Eljot. È equipaggiata con il primo motore a 4 tempi prodotto da Suzuki, un 4 cilindri di 797 cc che eroga 41 CV a 5.500 giri e 6,1 kgm a 3.500 giri. In Giappone affianca la LJ50, da cui si distingue soprattutto per il cofano rialzato e provvisto di 4 feritoie anteriori, e viene esportata in numerosi Paesi del mondo, tra cui gli USA e l’Europa (approda dapprima in Olanda nel 1979), dove crea una nicchia di mercato unica come 4×4 ricreazionale.

Nel 1978 sia la LJ50 che la LJ80 subiscono un piccolo aggiornamento estetico del frontale, che vede i fari principali ingranditi e posizionati più in basso. Ed è a questa “seconda serie” che appartiene la protagonista del nostro servizio. Le varianti di carrozzeria sono: base, cioè completamente aperta senza tetto né portiere (al loro posto ci sono barre metalliche) e con parabrezza ribaltabile; LJ80Q, con tetto in tela e portiere metalliche o in tela; LJ80V, con carrozzeria chiusa metallica; LJ81, prima versione pick up ad essere prodotta in grande quantità, con passo allungato (2,2 metri anziché 1,93), cabina a 2 posti e portata massima di 250 kg.

In Italia la LJ80 comincia ad essere importata ufficialmente nel 1980, ma alcuni esemplari erano già stati introdotti attraverso il mercato parallelo. Alla fine del 1981 termina la produzione della serie LJ, che viene sostituita dalla serie SJ, completamente nuova ma identificata anch’essa come Jimny in patria e su alcuni mercati.

La SJ ha un passo più lungo di 10 cm, sospensioni più morbide, interni più accoglienti e tutti i quattro posti fronte marcia.

Il primo modello della nuova generazione, la SJ30, viene lanciato nel maggio 1981. La SJ40/Jimny 1.000 con motore di 970 cc, il primo modello ad essere importato in Italia con il nome di SJ410, arriva nel 1982. Ma questa è un’altra storia…

QUOTAZIONI DI MERCATO

Escludendo le più rare e anziane LJ10 da 0,36 litri e LJ50 da 0,55 litri, più che altro perché di difficile reperibilità e per le quali possono essere richieste cifre al di sopra di 10.000 euro, sicuramente nella gamma delle piccole Suzuki quella per cui vale la pena di staccare un assegno è la storica e compatta LJ80, sempre più difficile da trovare, soprattutto omologata autovettura 4 posti: infatti la maggior parte degli esemplari in circolazione, con soft top, è omologata autocarro a due posti.

Difficile trovarne di sane e belle, la carrozzeria nasconderà sempre qualche magagna, inteso come rattoppo da pochi euro. La stragrande maggioranza purtroppo è stata “restaurata” alla buona, con tanto stucco e poco metallo, e verniciata “a pennello” per contenere i costi. Peccato, perché la LJ80 è un’auto che merita un restauro vero e che proprio per il suo aspetto “simpatico” si sta rivalutando in maniera piuttosto “prepotente”, come del resto tutte le “piccole”.

Poi in fuoristrada, grazie ai cerchi da 16” e le gomme a spalla alta nonché alla leggerezza complessiva del mezzo, si comporta davvero bene e passa dove altre non ce la fanno. La sua rivale storica è la Daihatsu Taft Serie F, soltanto un po’ più robusta.

© 4×4 Magazine – RIPRODUZIONE RISERVATA

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