Una meta lontana, insolita, ma ricca di fascino per i suoi immensi spazi deserti, il calore della sua popolazione dalle tradizioni millenarie, le bizze del meteo, le difficoltà fuoristradistiche di un territorio che ha ben pochi chilometri di strade asfaltate
Testo di Fabrizio Rovella – Foto di Dario Basile
Sabato pomeriggio, ero a casa. Squillò il telefono, era un amico anche lui organizzatore di viaggi. Dopo i saluti e lo scambio di informazioni, da dove arrivavamo e per dove stavamo per ripartire, quasi a bruciapelo mi domandò: e se quest’estate organizzassimo in Mongolia? A dire la verità non ci avevo mai pensato. Dopo una pausa di riflessione la telefonata finì con un “Sentiamoci tra qualche giorno ché ti faccio sapere”. Presi la classica palla al balzo e dopo pochissime telefonate mi ritrovai la sera già con il gruppo formato. Seguì quindi la telefonata, questa volta ben più convinta, che la meta era di mio gradimento e che ci saremmo visti a Milano o a Torino per cominciare ad organizzare il tutto. Come sempre (era accaduto anche per l’Islanda) si scelse il periodo statisticamente meno freddo e piovoso: giugno. E, come in Islanda, uscendo dall’aeroporto di Ulan Bator, trovammo vento gelido ed acqua a catinelle. Non ho mai amato statistica, sin dai tempi della scuola.
Quattro Toyota HDJ 80 ci aspettavano. Non c’era che l’imbarazzo della scelta: diesel, benzina, guida a destra e guida a sinistra. Per prima cosa mi buttai sotto tutte e scelsi quella con gli ammortizzatori più grossi, per la gioia di chi avrebbe scelto di viaggiare con me. Avevamo scelto, infatti, la formula fly&drive e chiesto un interprete, un cuoco, una guida e un meccanico. Che, sommati a noi dodici, faceva quattro per auto. Il viaggio, della durata di 23 giorni, prevedeva sia campi in stile Sahara sia campi in gher, le tipiche abitazioni circolari mongole, organizzate alla grande con stufa, tè caldo e pasti iper abbondanti a base di carne di yak e cammello.
Ancora un po’ sofferente per il jet lag, dato che per la prima volta anziché andare a sud pieno ero andato ad est, ecco la prima sorpresa: la cuoca, spaventata dal numero dei partecipanti e dalla quantità di cibarie per la cambusa che, da buoni italiani, stavamo comprando, dava forfait, ed è stata prontamente sostituita dalla valida agenzia a cui ci eravamo affidati.
Pronti, partenza, via. Dopo pochissimi chilometri di asfalto incontriamo piste, fuoripista e sabbia che non avremmo più lasciato se non al ritorno nella capitale. Guidavo la prima auto e quando, verso le fatidiche ore 17 – il mio cervello è “insabbiato” da 25 anni di Sahara – cominciai a cercare un luogo dove far campo ecco comparire, come un miraggio, alcune splendide dune. Aggirate alcune staccionate e compiuto il primo di una lunga serie di guadi (ma mai come in Mauritania la scorsa estate, dove al quarto giorno ne abbiamo fatti una ventina), eccoci tutti quanti felici a montare le tende sulla sabbia. Felici più o meno, in realtà: si trattava di 2 secondi cinesi, con la parte laterale aperta, mica come ora che, essendo tester Ferrino, fornisco tende e materassini di altissima qualità. Dopo una colazione a base di carne, per lo sconforto di tutto il gruppo e per la mia massima felicità, ripartimmo. Dovete sapere che guide e libri parlano sempre delle nuvole, che in Mongolia sembra che tocchino terra.
Mai cosa letta fu più vera, è una sensazione meravigliosa, in ogni momento sembrava di poterle toccare o di infilarcisi dentro un po’ come capita in aereo quando si atterra. I giorni passavano, ovviamente sempre rispettando la statistica, tra scrosci di pioggia e nevischio, con tre campi a -3°C e guadi di neve anziché d’acqua. Ma all’alba della prima settimana il sole ed il cielo blu facevano ben sperare per una svolta, ed infatti verso le 15 ricordo di aver visto in lontananza alcune auto ferme e parecchie persone lì intorno, ed il meccanico che sedeva accanto a me continuava a girarmi il volante per farmi andare in quella direzione. Mentre io che stavo così bene in quel vuoto assoluto che sono le vallate mongole ero restìo a rivedere mezzi e persone! All’ennesima insistenza mi decisi ad avvicinarmi e, con stupore quasi da film, vedemmo degli sciamani danzare in mezzo al nulla, chiamati lì da alcune famiglie della regione. Ricordo che eravamo riluttanti a scendere dalle auto, ma un cenno di uno di questi sciamani ci rassicurò e così ci avvicinammo per poter ammirare e fotografare un evento unico al mondo.
Pronti, partenza, via. Dopo pochissimi chilometri di asfalto incontriamo piste, fuoripista e sabbia che non avremmo più lasciato se non al ritorno nella capitale. Guidavo la prima auto e quando, verso le fatidiche ore 17 – il mio cervello è “insabbiato” da 25 anni di Sahara – cominciai a cercare un luogo dove far campo ecco comparire, come un miraggio, alcune splendide dune. Aggirate alcune staccionate e compiuto il primo di una lunga serie di guadi (ma mai come in Mauritania la scorsa estate, dove al quarto giorno ne abbiamo fatti una ventina), eccoci tutti quanti felici a montare le tende sulla sabbia. Felici più o meno, in realtà: si trattava di 2 secondi cinesi, con la parte laterale aperta, mica come ora che, essendo tester Ferrino, fornisco tende e materassini di altissima qualità. Dopo una colazione a base di carne, per lo sconforto di tutto il gruppo e per la mia massima felicità, ripartimmo. Dovete sapere che guide e libri parlano sempre delle nuvole, che in Mongolia sembra che tocchino terra. Mai cosa letta fu più vera, è una sensazione meravigliosa, in ogni momento sembrava di poterle toccare o di infilarcisi dentro un po’ come capita in aereo quando si atterra. I giorni passavano, ovviamente sempre rispettando la statistica, tra scrosci di pioggia e nevischio, con tre campi a -3°C e guadi di neve anziché d’acqua. Ma all’alba della prima settimana il sole ed il cielo blu facevano ben sperare per una svolta, ed infatti verso le 15 ricordo di aver visto in lontananza alcune auto ferme e parecchie persone lì intorno, ed il meccanico che sedeva accanto a me continuava a girarmi il volante per farmi andare in quella direzione. Mentre io che stavo così bene in quel vuoto assoluto che sono le vallate mongole ero restìo a rivedere mezzi e persone! All’ennesima insistenza mi decisi ad avvicinarmi e, con stupore quasi da film, vedemmo degli sciamani danzare in mezzo al nulla, chiamati lì da alcune famiglie della regione. Ricordo che eravamo riluttanti a scendere dalle auto, ma un cenno di uno di questi sciamani ci rassicurò e così ci avvicinammo per poter ammirare e fotografare un evento unico al mondo.
Tutti quanti amiamo il Sahara e ne parliamo anche con dovizia di particolari ma quando racconto che in Mongolia, in una giornata, la media in movimento fu di 11,7 km dati da GPS, nessuno quasi mi crede, visto che anche in mezzo alle dune più dure di solito si procede più veloci. Motivo? Una pista totalmente allagata e piena di crateri, tanto che tutte le quattro ruote erano sempre in twist. E questo dall’alba al tramonto. Finalmente raggiungemmo il Gobi, uno dei miti di quando ero piccino e l’atlante cartaceo era il mio compagno di giochi e di sogni di avventure. Facemmo campo tra dune meravigliose ed è stato proprio qui che per la prima volta, nonostante tanti anni di Sahara, ho sentito le dune cantare, facendomi sentire come Ulisse con le sue famosissime sirene. Peccato che da lì a poco un vento, parente prossimo di una vera e propria tempesta di sabbia, mi abbia fatto rientrare in tenda carponi e completamente accecato. I pali di sostegno sbatterono sul telo fino all’alba.
L’incontro che ha segnato il viaggio, però, avvenne in un tranquillo pomeriggio, giusto dopo aver visitato uno dei tanti monasteri ed aver assistito a delle funzioni religiose con tanto di profumatissimo incenso. Incrociammo dei motorini con appesi al manubrio numerosi sacchi di tela.
Come presi da un raptus di pazzia, il meccanico al mio fianco e la guida nell’auto che ci seguiva si gettarono fuori dall’auto ancora in movimento, tra lo stupore generale di noi tutti. Quei sacchi contenevano marmotte appena cucinate. Ma cucinate come? Vengono completamente svuotate delle interiora e riempite con pietre incandescenti che le arrostiscono dall’interno. Tutte le informazioni e le guide parlavano della possibilità di prendere il colera ed infatti, da carnivoro doc, fui l’unico ad accettare prelibati pezzi di carne, peccato solo che sapessero di terra e radici. E comunque, dopo aver assaggiato quelle marmotte, così come dopo aver bevuto acqua da pozzi, pozze e sorgenti di ogni tipo in giro per il mondo, sono ancora qui a scrivere dei miei viaggi.
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